VIOLENZA FAMILIARE E GIUSTIZIA RIPARATIVA

UN INCONTRO POSSIBILE? PERCHE’ RIFLETTERCI E COME

Di Fabiana Gara, counselor della famiglia e mediatore penale esperto.
Referente regionale Marche e Umbria

La legge 150/’22,  detta legge Cartabia, introduce la Giustizia Riparativa e il ricorso alla mediazione penale come elemento facente parte del procedimento giudiziario. Ne dispone i macro funzionamenti e le modalità di ricorso nonché i principi fondamentali come pure gli organismi che la dovranno disciplinare. Ampia parte è poi dedicata alla formazione richiesta ai mediatori che potranno esercitare il compito assegnato nel panorama del procedimento giuridico. Quindi non più solo gli organi di giustizia come previsti nei vari ordini e gradi, non solo gli avvocati delle parti e tutte le altre figure che entrano a pieno titolo nei percorsi giuridici, ma anche i mediatori, quelli ufficialmente riconosciuti  per titoli ed esperienze. Questi mediatori possono operare solo in centri aventi determinate caratteristiche e che pertanto vengono considerati alla pari degli altri organi di giustizia. Anche questi centri devono essere riconosciuti dalla conferenza regionale solo se possiedono determinate caratteristiche. 

Già da questa breve descrizione si può intuire quanto solo la parte organizzativa della materia richiede un lungo lavoro di costruzione perché di questo non esiste nulla. Non che non si facesse attività di mediazione penale e giustizia riparativa in Italia, ma la si faceva attraverso alcuni centri che avevano seguito una formazione specifica riconosciuta a livello internazionale e che funzionavano attraverso fondi che finanziavano progetti.

Ora lo scenario deve cambiare e per farlo sono state istituite le conferenze regionali che fanno capo al Ministero. Hanno il compito di fare una ricognizione dei centri operativi e di quelli che potenzialmente possono diventarlo e che hanno necessità di riconoscimento per svolgere la loro attività secondo i nuovi criteri. Finora sono state costruiti i criteri per il riconoscimento dei mediatori già attivi e per poter essere iscritti in un elenco presso il Ministero di Grazia e Giustizia. Per ogni passaggio si presentano confronti anche aspri con i vari attori perché ciascuno pone dei quesiti e delle riflessioni in base al proprio punto di vista e alle proprie esperienze. In questa fase di grande confusione esiste un Comitato di Mediatori che vede riuniti quasi tutti i mediatori esperti italiani che riflette sui temi aperti e che propone anche delle riflessioni allargate, nonché protocolli d’intervento, indicazioni per la formazione, risposte a quesiti vari. E’ uno spazio che produce idee, risposte e soluzioni, si interfaccia con il Ministero che ha il compito di fare proposte operative per  rendere attuativa la legge e i regolamenti successivi. 

Questo organismo potrebbe essere un interlocutore interessante per il nostro tema?

Il tema è Giustizia Riparativa e violenza familiare.

La legge Cartabia sancisce che ogni reato è ammissibile a percorsi di G.R. e non esistono esclusioni. Mentre per la mediazione familiare era stato esplicitato che non erano ammissibili situazioni di codice rosso. 

Come fare per evitare che lo spazio della giustizia riparativa, così come previsto dalla Cartabia, possa diventare il contenitore di tutte le situazioni di violenza familiare? Non si rischia così di colludere con una giustizia reo centrica e che svilisce e minimizza il reato della violenza familiare utilizzando uno strumento in maniera impropria?

La questione pone non pochi quesiti.

La mediazione in genere è uno spazio in cui entrambe le parti mettono in discussione o comunque affrontano la questione dell’atto violento, ma soprattutto  della relazione violenta  parlando anche di sé e di altro,  condividono il desiderio o l’opportunità di arrivare ad una chiarezza e una condivisione degli elementi  che hanno costituito l’atto, ma la storia deve combaciare. Quando siamo in una relazione caratterizzata da violenza è invece assai difficile che le storie combacino perché i punti di vista sono estremamente differenti e le motivazioni sono estremamente distanti. Le narrazioni si pongono su due livelli diversi: uno caratterizzato dal potere e l’altro dalla sottomissione. 

I punti su cui riflettere sono dunque: se una mediazione è possibile, e a quali condizioni.

La giustizia riparativa e la mediazione, suo strumento privilegiato ma non unico, si caratterizza per alcuni aspetti: volontarietà, consenso libero per tutte le fasi del percorso,  segretezza del percorso, presenza di mediatori esperti, valutazione della fattibilità dell’incontro a cura dei mediatori. Di norma la  mediazione penale si svolge su un fatto puntuale rispetto al quale le parti si sono incontrate: il fatto reato. 

Nella violenza domestica non si ha solitamente un solo fatto reato, ma si esplica in una relazione sfociata in fatti reato denunciati e portati all’attenzione del giudice, ma sappiamo che non si sostanzia in questo. 

Il percorso di mediazione vero e proprio, cioè l’incontro persona autore dell’offesa e vittima, si svolge a parità di condizioni e presuppone che, almeno una parte del racconto dei fatti, sia condivisa. L’incontro di mediazione è solo l’atto finale di un percorso di valutazione prima di definire l’ammissibilità del reato alla mediazione, cui segue un accompagnamento delle parti all’incontro e la valutazione di fattibilità a cura degli stessi  mediatori. 

Ma nella fattispecie di reato che stiamo analizzando possono emergere altre domande:

La mediazione nel percorso di giustizia riparativa favorisce una delle parti? Quali i vantaggi si possono supporre per il reo e quali per la vittima? Questo aspetto costituisce un punto di chiusura per le associazioni che si occupano di accoglienza delle donne vittime di violenza domestica e di genere, perché vedono lo strumento della mediazione come un elemento di privatizzazione del fenomeno che invece va mantenuto a livello sociale come una questione non intima e privata. Ricondurre la relazione violenta ad un fatto esclusivamente privato può costituire favoreggiamento della parte violenta. 

Tuttavia dobbiamo fare conti con la realtà: spesso e volentieri nelle aule dei tribunali la violenza domestica viene ridotta ad una conflittualità di coppia più o meno esplicitata chiaramente; spesso e volentieri i giudici hanno fatto ricorso alla mediazione familiare come fosse un compito burocratico da portare avanti da parte dei partecipanti. A questo si aggiunge la criticità derivante dal fatto che non sempre era possibile effettuare la richiesta mediazione, a causa delle scarsità delle risorse sul territorio di contesti pubblici che potessero assolvere al compito;  ma soprattutto perché le linee operative seguite dai servizi  non coincidevano con il mandato del tribunale e quindi non si poteva procedere alla mediazione per incompatibilità dichiarata di questo istituto con la natura  del fenomeno “ violenza di genere e familiare”. Criticità, queste, che non sembrano aver modificato le posizioni e le decisioni dei giudici, e del sistema Giustizia in generale. 

E’ un tema molto discusso e al quale si sta cercando di fare fronte e dare delle risposte che evitino l’ulteriore vittimizzazione della donna, cosa che capita molto spesso nei percorsi di uscita dalla violenza, soprattutto paradossalmente quando  si arriva in un’aula di tribunale.

L’approccio alla vittima non è conforme al bisogno della vittima o al riconoscimento dello status di vittima di quello specifico reato, e ogni mistificazione, minimizzazione, rendono il percorso insostenibile, creando nella vittima un senso profondo di ingiustizia e impotenza. Si accentua,  invece che diminuire, il senso di precarietà, sfiducia, paura e angoscia dalle quali la vittima aveva intenzione di fuggire.

C’è quindi una tendenza a portare i soggetti su uno stesso piano e si parla molto spesso di conflittualità anziché di violenza delineando così una cornice giuridica altra e consentendo un viraggio verso una corresponsabilità non reale. Tutto ciò è dovuto sia ad una scarsa conoscenza approfondita e reale del fenomeno, benché se ne parli molto e ci sia molta informazione, ma soprattutto da un retaggio culturale che predomina e ha il sopravvento su alcune decisioni e fasi del procedimento. 

Esiste inoltre un diverso e personale atteggiamento culturale  insito nell’essere umano che condiziona il modo di accogliere una vittima, delle attese, delle aspettative che non corrispondono all’essenza reale di quest’ultima. Il trattare con le vittime richiede una profonda conoscenza come pure una capacità personale e intima da parte del professionista, di stare col dolore e con i meccanismi post traumatici e difensivi di cui la vittima è portatrice. In alcune regioni italiane, e in alcuni servizi, questa modalità di lavoro e questa attenzione si stanno facendo strada e si cerca di modificare l’iter di accoglienza e di ascolto, ma purtroppo ciò è ancora molto raro e a macchia di leopardo. 

In questo momento storico la legge Cartabia, introducendo indiscriminatamente la giustizia riparativa,  porta sullo scenario della giustizia nei casi di violenza domestica,  degli aspetti profondamente diversi da quelli che valgono per il resto della giustizia ordinaria. La sua introduzione riporta indietro le lancette dell’orologio, nel momento in cui sancisce che tutti i reati possono essere oggetto del percorso e pertanto include anche i reati a codice rosso, che  dopo lunghi percorsi, erano stati esclusi. Per questo la questione mi sembra di estrema attualità.

Non è chiaro come verranno trattate in aula tali questioni, ma pensando ai tentativi da parte dei difensori degli aggressori e  le cattive interpretazioni, o le minimizzazioni riuscite, il rischio che ai centri di mediazione possano essere inviati molti se non tutti i casi di violenza domestica perché, attraverso  il cavallo di Troia della  fattibilità del percorso di mediazione, si replichi come violenza istituzionale quella sottomissione della parte debole presente nelle relazioni domestiche violente, è molto alto. 

A questo punto corre l’obbligo a mio avviso di anticipare tale evenienza. Posso dire che  si sta già verificando l’invio di tali casi; lo posso affermare con certezza dalla mia esperienza pratica nel centro regionale delle Marche, funzionante dal 2006, e nel quale opero come mediatore esperto iscritto nell’elenco del ministero al n. 51, riconoscimento ottenuto a marzo 2024. E quello che vedo non è rassicurante, le parti si presentano con le normali posizioni assunte nel tribunale, i difensori dell’accusato tendono a dire che si tratta di un singolo evento o a minimizzare, la parte offesa racconta altro, quando trova il coraggio di sfidare la narrazione negazionista del presunto perpetratore, con una narrazione incompatile con quella dell’altra parte. 

La mediazione rischia di diventare uno spazio di ulteriore conflitto, ma è pacifico che non è questa la sua funzione, non è lo spazio in cui decidere chi ha colpa e chi no, quale sia la verità. Il rischio è pertanto quello di riproporre in parte ciò  che si configurava all’inizio del secolo per la mediazione familiare: di riportare in ambito privatistico una questione che non lo è, invece va portata all’attenzione della comunità perché si tratta di una questione sociale. Non sono affari della famiglia, che possono trovare composizione tra i confliggenti;  la violenza riguarda la società, gli aspetti culturali di questa, e la società non se ne può e non se ne deve liberare. La giustizia è un fatto sociale e la violenza sulle donne lo è nella stessa misura. 

Ma per la mediazione penale prevista dalla nuova legge, il rischio è ancora maggiore rispetto alla mediazione familiare pre Cartabia, perché essendo un procedimento all’interno del codice penale e un percorso parallelo della giustizia ordinaria che si innesta in questa, assume una valenza maggiore. Ha una grossa potenzialità di riscatto anche sociale per le parti coinvolte, ma il rischio che il guadagno maggiore sia ancora una volta a favore del maltrattante, è altissimo. Che questo spazio sia strumentalizzato e utilizzato  non per un lavoro di ascolto e di riparazione fra le parti, ma  piuttosto come uno spazio ove la parte che detiene il potere può esercitare un suo gioco a discapito della parte offesa, è alto. 

Non dobbiamo però ignorare che la mediazione penale è anche lo spazio di parola per la persona offesa, l’unico spazio in cui sia possibile gridare effettivamente le sue fatiche e le sue paure. Ma quando queste possono essere accolte in modo costruttivo dal maltrattante? Cosa è possibile ipotizzare per conciliare quello che potrebbe essere il bisogno di protezione e di interruzione della violenza espresso dalla parte offesa con il bisogno di riscatto dell’aggressore?

La giustizia riparativa per essere tale introduce un ulteriore elemento che è fondamentale, e cioè la partecipazione o la presenza della comunità nel procedimento di giustizia. In che modo? 

Anche attraverso le giuste riflessioni con le quali possiamo costruire dei percorsi virtuosi, o attraverso quello che potremmo costruire insieme sia all’interno della mediazione penale sia adesso come esperti della materia che si riuniscono trovando i giusti interlocutori per riflettere e costruire delle linee che traccino alcuni punti fermi a protezione dell’identità delle parti e del riconoscimento richiesto

La società o la comunità possono anche entrare in gioco come parte attiva immaginando i bisogni culturali di diffusione di una cultura nuova intorno alla violenza e alle criticità finora incontrate sul tema e riguardo all’incontro fra verità e giustizia. Ma attraverso quali forme e modalità? Credo che al momento non ci siano risposte. 

All’interno di tutto quanto detto, dobbiamo includere ancora un elemento importante finora non menzionato. I minori di età. I bambini della cui tutela  noi del Cismai ci occupiamo in maniera privilegiata, riconoscendo  anche che a volte la protezione dei bambini passa attraverso la protezione delle loro madri.  Non solo, ma anche i giovanissimi sono già coinvolti nella problematica della violenza di genere. Nelle scuole  aumentano gli episodi di fronte ai quali gli insegnanti rimangono attoniti e chiedono aiuto. Sembra un fenomeno nuovo, in realtà potrebbe essere solo aumentata la nostra  capacità di leggerne i sottili segnali, grazie alla attenta informazione sulla materia. Nelle stanze della mediazione arrivano anche questi casi. 

La mediazione penale inizialmente nasceva in Italia per i reati dei minorenni cui, nell’ottica di un bisogno evolutivo, veniva offerta l’esperienza della mediazione come possibilità di assunzione concreta di una responsabilità che altrimenti era  troppo astratta. Per i giovani è stato infatti provato che la recidiva veniva abbassata di molto grazie all’intervento della mediazione.

Esiste un possibile incontro?

Credo potrebbe esistere una possibilità di incontro fra mediazione penale come percorso di giustizia riparativa e violenza familiare, ma sicuramente vanno analizzati molti aspetti e escluse a priori alcune situazioni. Stante il fatto che la legge recita che tutti possono fare domanda di accesso al percorso di giustizia riparativa, chi ha l’obbligo di valutarne la ammissibilità? La legge lo attribuisce ai centri, ma questo punto non  incontra l’accordo unanime. Anche perchè non sono definiti i criteri che possano rendere tale circostanza un’opportunità e non un ulteriore meccanismo perverso. 

Da tempo sul territorio italiano i mediatori esperti e i centri riconosciuti nella vecchia legge, operano per le regioni alla diffusione di cultura della vittima e apertura di sportelli per vittime di reati. Sono sportelli informativi e di accompagnamento ma che iniziano a diffondere una cultura dell’accoglienza delle vittime e a creare una cultura diversa.

Per questo mi sembra importante pensare di lavorare per costituire un tavolo tecnico professionale composto da professionisti del settore protezione e tutela donne e madri vittime e professionisti della mediazione e di giustizia riparativa. Abbiamo per la tutela delle vittime la rete Dafne, ma anche Artemisia che fa da capofila o da referente per le case rifugio italiane,

Per quanto riguarda inoltre la parte di competenza specifica del Cismai, è importante a mio avviso, la riflessione laddove siano coinvolte madri i cui figli devono essere visti come minori vittime di violenza assistita, con tutte le difficoltà che sappiamo esistere su questo versante. 

Una cattiva interpretazione del fenomeno, un ridimensionamento dello stesso, un raggiunto  momento riparativo,  esito della mediazione vera e propria, potrebbe indurre i giudici della famiglia a non valutare nel modo corretto la violenza e la competenza genitoriale e mettere entrambi i genitori nuovamente sullo stesso piano e modificare così una cornice giuridica spostandola ancora una volta sulla conflittualità. I figli vengono visti se e quando vengono visti, come vittime della conflittualità accesa, ma non a rischio per la violenza assistita e gli interventi possono essere così formulati in una cornice giuridica diversa e utilizzati strumenti differenti non utili e non specifici per la situazione propria della violenza. 

E’ un momento storico importante che potrebbe essere prezioso per anticipare i temi aperti e non lasciare che vengano gestiti senza che anche noi come esperti del settore, possiamo dire la nostra in un argomento così delicato.

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